Four Rooms: la notte di capodanno, un albergo, quattro registi e altrettante idee diverse di cinema

Four Rooms non è un racconto coerente, ma un esperimento sul linguaggio cinematografico e sulle sue possibilità

Four Rooms (1995) non è un film unitario nel senso classico del termine, ma un dispositivo cinematografico complesso che mette alla prova l’idea stessa di coesione narrativa. Four Rooms è un film antologico che vive di fratture: stilistiche, narrative, tonali. L’unità apparente – un albergo di Los Angeles durante la notte di Capodanno – è solo un pretesto spaziale che consente a quattro registi di mettere in scena la propria idea di cinema. Quattro registi, quattro episodi autonomi, un solo luogo e un solo personaggio di raccordo: Ted, il fattorino interpretato da Tim Roth. La figura di Ted, il fattorino interpretato da Tim Roth, è il perno su cui ruota l’intero progetto: un personaggio volutamente neutro, modellabile, che assume significati diversi a seconda dello sguardo autoriale che lo attraversa. Analizzare Four Rooms significa dunque rinunciare a una lettura globale e affrontare l’opera come un polittico, in cui ogni pannello possiede una propria grammatica, un proprio ritmo e una propria concezione del cinema.

The Missing Ingredient – Regia di Allison Anders

Il primo episodio è il più atmosferico e, paradossalmente, il meno narrativo. Allison Anders costruisce un racconto che si muove ai margini della commedia per sconfinare in un territorio quasi rituale, dominato da suggestioni esoteriche e da un senso di sospensione costante. La stanza diventa uno spazio liminale, più simbolico che realistico, in cui la logica narrativa cede il passo all’impressione sensoriale.

La regia predilige un uso insistito del primo piano e una messa in scena volutamente claustrofobica, che restituisce la sensazione di un incubo a occhi aperti. Il ritmo è volutamente irregolare, quasi ipnotico, e mette in difficoltà lo spettatore che si aspetta una progressione comica tradizionale. La sceneggiatura rinuncia a una vera struttura di conflitto per affidarsi a dialoghi criptici e a situazioni che sembrano più evocate che raccontate. Madonnanel ruolo di una sacerdotessa moderna, incarna un carisma enigmatico che non cerca mai la seduzione facile, ma piuttosto una presenza simbolica, quasi astratta.

Accanto a lei, Ione Skye e Alicia Witt contribuiscono a creare un coro inquieto, più evocativo che psicologicamente definito.

Ted, qui, non è ancora personaggio ma funzione: un corpo estraneo che attraversa una realtà che non comprende. Tim Roth lavora sulla sottrazione, accentuando l’imbarazzo e lo smarrimento, ma l’episodio resta programmaticamente chiuso su se stesso. Più che intrattenere, Anders sembra voler destabilizzare, aprendo il film con un tono che è quasi una dichiarazione di poetica: Four Rooms non cercherà mai la comfort zone dello spettatore.

The Wrong Man – Regia di Alexandre Rockwell

Il secondo episodio è il più fragile e, al tempo stesso, il più ambizioso sul piano psicologico. Rockwell tenta di costruire una commedia dell’assurdo che si nutre di equivoci, solitudine e frustrazione, ma il risultato è volutamente scomposto, quasi irrisolto. La stanza diventa un microcosmo domestico in cui il grottesco nasce non dall’eccesso, ma dalla stasi.

La regia è meno appariscente rispetto al primo episodio, ma anche meno controllata. Rockwell sembra interessato più ai silenzi che alle battute, più alla tensione latente che alla risoluzione comica. La sceneggiatura procede per accumulo di disagio: ogni gesto, ogni parola spinge la situazione verso un paradosso che però non esplode mai del tutto.

Jennifer Beals interpreta una donna fragile, emotivamente instabile, intrappolata in una relazione soffocante con un marito geloso interpretato da David Proval

Ted assume qui una dimensione più definita: non solo testimone, ma catalizzatore involontario di conflitti che non gli appartengono. Roth lavora su un registro quasi beckettiano, fatto di attese, di reazioni minime, di una comicità che nasce dalla sproporzione tra la sua buona volontà e l’ostilità dell’ambiente. È un episodio che chiede molto allo spettatore e restituisce poco in termini di immediatezza, ma che rivela una precisa volontà autoriale: raccontare il fallimento della comunicazione come motore narrativo.

The Misbehavers – Regia di Robert Rodriguez

Con il terzo episodio il film cambia radicalmente passo. Rodriguez introduce un’energia slapstick che si avvicina alla commedia fisica più pura, costruendo un meccanismo narrativo basato sul tempo, sul movimento e sulla reiterazione dell’errore. La stanza si trasforma in un campo di battaglia domestico, dove l’azione sostituisce il dialogo come principale veicolo comico.

La regia è dinamica, precisa, quasi matematica. Ogni gag è costruita con un senso del ritmo impeccabile, e la sceneggiatura gioca con l’idea di responsabilità e caos in modo esplicitamente ludico. Qui Four Rooms diventa finalmente accessibile, senza per questo rinunciare all’intelligenza.

Antonio Banderas e Tamlyn Tomita interpretano una coppia benestante che affida incautamente i propri figli alle cure di Ted durante una festa.

Ted è al centro dell’azione, costretto a improvvisarsi adulto in una situazione che lo sovrasta. Roth accentua il lato clownesco del personaggio, sfruttando corpo e voce con grande consapevolezza. È l’episodio che più di tutti dimostra come il personaggio di Ted possa funzionare come protagonista comico a pieno titolo, e non solo come collante narrativo. Rodriguez realizza un racconto compatto, autosufficiente, che sembra quasi un cortometraggio perfetto incastonato in un film irregolare.

The Man from Hollywood – Regia di Quentin Tarantino

L’episodio finale è il più verboso, il più riconoscibile, il più autoreferenziale. Tarantino costruisce un lungo atto unico fondato quasi esclusivamente sul dialogo, sulla tensione verbale e sul gioco cinefilo. La stanza diventa un palcoscenico teatrale, e la regia si mette al servizio della parola, rinunciando deliberatamente all’azione fino all’atto conclusivo.

La sceneggiatura è un esercizio di stile consapevole, che cita, rielabora e ironizza su un certo immaginario classico, e lo fa spingendo al limite la pazienza dello spettatore. I dialoghi sono brillanti, ma volutamente ridondanti, e il tempo narrativo viene dilatato fino a diventare esso stesso oggetto di tensione.

Quentin Tarantino stesso interpreta Chester Rush, figura arrogante e manipolatoria, mentre Bruce Willis appare in un ruolo anomalo e non accreditato, incarnando un’autorità cinica e disillusa. Jennifer Beals ritorna, assumendo qui una funzione diversa, quasi decorativa, all’interno del gioco di potere maschile.

Ted, ormai completamente trasformato dalla notte, diventa qui una figura quasi tragica: un uomo qualunque trascinato in un gioco più grande di lui. Roth modula la sua interpretazione con precisione, passando dall’insicurezza iniziale a una sorta di rassegnata lucidità finale. Il gesto conclusivo, tanto crudele quanto ironico, suggella l’episodio come una parabola sul potere arbitrario e sulla casualità morale.

Considerazioni finali

Four Rooms è un’opera diseguale, ma proprio per questo estremamente fertile dal punto di vista critico. Ogni episodio riflette una diversa concezione di cinema, di racconto e di comicità, e il personaggio di Ted diventa il terreno comune su cui queste visioni si scontrano senza mai fondersi davvero. Non è un film che cerca armonia, ma frizione. E in questa frizione risiede il suo interesse più profondo: quello di mostrare come lo stesso spazio, lo stesso tempo e lo stesso personaggio possano generare esiti radicalmente differenti a seconda dello sguardo che li attraversa. È un film che richiede uno spettatore attivo, disposto ad accettare la discontinuità come valore critico e non come difetto. Dalla frattura emerge la sua forza: Four Rooms non è un racconto coerente, ma un esperimento sul linguaggio cinematografico e sulle sue possibilità.

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Cristina Lucarelli
Cristina Lucarelli
Cristina Lucarelli, giornalista pubblicista, specializzata in sport ma con una passione anche per musica, cinema, teatro ed arti. Ha collaborato per diversi anni con il quotidiano Ciociaria Oggi, sia per l'edizione cartacea che per il web nonché con il magazine di arti sceniche www.scenecontemporanee.it. Ha lavorato anche come speaker prima per Nuova Rete e poi per Radio Day e come presentatrice di eventi. Ha altresì curato gli uffici stampa della Argos Volley in serie A1 e A2 e del Sora Calcio.

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