Oggi Paolo Mendico torna a casa, dopo la cremazione e i funerali di ieri nella chiesa di Santi Cosma e Damiano. Paolo aveva solo quindici anni, viveva con la madre Simonetta, originaria di Cassino, e il padre Giuseppe, nato e cresciuto nel piccolo paese della provincia di Latina, insieme ai suoi fratelli e sorelle. Una famiglia spezzata da un dolore immenso, che non può essere ignorato né dimenticato. Come riporta la collega Angela Nicoletti dalle colonne di FrosinoneNews, la sua sofferenza, causata da quello che si sospetta essere stato un bullismo incessante, è stata una lenta agonia fatta di parole pesanti come macigni, di risate che feriscono più di un pugno, di sguardi crudeli e isolamento. Quante volte, in silenzio, ha sopportato insulti e offese? Quante volte qualcuno ha detto “sono solo scherzi”, “ragazzate”? Ma le parole hanno conseguenze. Non sono mai “solo parole”. Sono frecce che colpiscono dentro, fino a spegnere la luce. Trovava rifugio nella musica, come racconta uno degli ultimi video di un suo concerto. Ma neppure quella è bastata davanti a tanto male.
Si indaga per istigazione al suicidio
La Procura di Cassino, con il procuratore capo Carlo Fucci che ha preso a cuore la vicenda, ha aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio. – LEGGI QUI – I carabinieri di Formia stanno scavando nel dolore di questa storia, sequestrando telefoni, esaminando conversazioni, cercando di capire come un ragazzo possa essere stato spinto così lontano. Nel frattempo, il ministro Valditara ha annunciato un’ispezione nelle scuole frequentate da Paolo, per accertare come si sia arrivati a tanto.
Questa tragedia non è solo di Paolo e della sua famiglia: è di tutti noi. Perché quando un ragazzo decide di togliersi la vita, non lo fa da solo. Dietro ci sono il silenzio di chi ha visto e non ha parlato, l’indifferenza di chi ha girato lo sguardo, la leggerezza di chi ha banalizzato le ferite invisibili.
Un monito che ci impone di non voltare le spalle
A chi crede che il bullismo sia solo un gioco, o peggio ancora “normale”, va detto che ogni derisione, ogni esclusione, ogni insulto sono mattoni con cui si costruisce una prigione invisibile da cui molti giovani non riescono a uscire. È ora di smettere di chiudere gli occhi, di minimizzare, di giustificare con “sono ragazzate”. La vita di un ragazzo non è un gioco, e le sue parole sono un grido che non possiamo più ignorare.
Paolo oggi torna a casa, ma il vuoto che lascia è un richiamo doloroso e urgente: non possiamo più restare immobili davanti a queste tragedie. Dobbiamo agire, parlare, educare, proteggere. Perché non ci sia più un altro Paolo. Perché non accada più che un giovane si senta così solo da scegliere di non voler più vivere.
La memoria di Paolo è un monito che ci impone di non voltare le spalle, di rompere il silenzio e di gridare insieme un deciso “basta”.