È soltanto una falsa partenza, un modo per darsi un tono e dare l’impressione di essere già in movimento. La rotta di avvicinamento al centesimo compleanno della città dovrebbe segnare l’ultimo miglio di un percorso di rinascita capace di presentare Latina, con il vestito delle grandi occasioni, al giudizio della nazione, curiosa di conoscere un tantino meglio il capoluogo di provincia più giovane del Paese Italia.
E per l’appena celebrato 93esimo anno dalla fondazione ci saremmo aspettati di vedere piantato il primo cartello segnaletico con l’indicazione giusta da seguire per arrivare alla meta agognata, quella del futuro.
Chi non ci conosce, noi di questa città, avrà qualche difficoltà ad accettare che Latina sia ancora una città bambina, e che per lei il giorno del centenario dovrebbe essere anche quello di una raggiunta maggiore età, ma noi che siamo indigeni e dunque un po’ consapevoli del pezzetto di storia che la città ha alle spalle, sappiamo che i padri e i nonni che ci hanno preceduti hanno vissuto, fino a quarant’anni fa, in una Latina adulta, giovane e dinamica, scalpitante ed entusiasta di sé, con le carte in regola per rivendicare il ruolo di capoluogo di una provincia tanto complessa dal punto di vista antropologico quanto bella nelle sue fattezze naturali. E allora perché parlare di città bambina? Perché negli ultimi quarant’anni Latina è regredita come non ci saremmo aspettati, ha perso il terreno conquistato in un avvincente dopoguerra fatto di fatica e passione, ha smarrito il senso di appartenenza che si costruisce soltanto intorno alle cose in cui si crede e che si realizzano insieme, è scivolata giù nel fango di una palude che non è più quella degli acquitrini e delle zanzare, ma quella politica, sociale e culturale.
Sono quarant’anni che a Latina, a parte gli zingari, la camorra, la corruzione, la cocaina e adesso anche le bombe, non succede niente. Diagramma piatto, come quello di un cuore che ha cessato di battere e un cervello che ha smesso di pensare. Nessuno si senta offeso, ma se non si comincia col chiamare le cose per nome, non c’è possibilità di ragionare e nemmeno di partire verso una qualsiasi meta. Latina è ferma, pericolosamente arenata e incapace di prendere il largo.
La responsabilità è collettiva, di tutti nessuno escluso, nemmeno quelli che sbagliano nell’affidare la delega di governo, e nemmeno quelli che per spocchia o perché troppo a lungo delusi disertano le urne. E così continuiamo ad avvitarci su noi stessi, come fa un aereo che precipita. E sbagliamo anche nelle occasioni, sempre più rare, che dovremmo sfruttare per restituirci il coraggio che serve per affrontare una battaglia. E così, invece di tirare fuori il meglio di cui siamo capaci, diamo prova di essere vecchi, superati e senza risorse. Quelle umane soprattutto. E non esitiamo a lagnarci di presunte fughe di cervelli, senza mai domandarci per quale ragione una ragazza o un ragazzo normali e un po’ ambiziosi dovrebbero avere voglia di trattenersi nel luogo dove sono nati, ma dove non hanno chances di crescita. Tra sei anni, quanti ne mancano per i cento anni di Latina, avremo qualcosa di nuovo da offrire loro? Se non cominciamo subito a domandarcelo, la risposta è no.
